Uebersetzungen

Samstag, 13. August 2011

Elisa Biagini: die karte gekaut und ...

die karte gekaut und
wieder ausgespuckt: die spur
ist im hals, die zunge
die richtung.

mappa masticata e
risputata: la traccia
è nella gola, la
lingua direzione.


Elisa Biagini: Gretel o del perdersi, in: Nel bosco. Turin 2007 (Collezione di poesia 359)

Freitag, 25. März 2011

die morgenröte / L'Aurora - Salvatore Quasimodo

die morgenröte

weiß und flüchtig verdampft der nebel
in der reinen luft. der osten wird golden
licht breitet sich: die morgenröte.
der kauz, sein letzter schrei dem flieh’nden
dunkel, verliert sich im schweigen des
schattens des waldes. die liebe beginnt
ausgelassen trillern in den düften
junger in blüte stehender büsche
die vögel. stolz errichten sich auf ihrem stiel
die noch dösenden alpenveilchen
die wie wild darauf warten, daß da im
türkishimmel leuchtend der goldstern
aufgehe, ihre korallenfarbigen blüten
zu öffnen. die rosige aurora ist’s: ans werk!


L’AURORA

Bianca, fugace, la nebbia svapora
nell’aria pura. S’indora l’oriente,
s’effonde la luce: ecco l’aurora.
L’ultimo grido il gufo alla fuggente
tenebra getta e nel silente ombroso
bosco dispare. Incomincia l’amore
allegri trillano fra l’odoroso
aere dei giovani arbusti in fiore
gli uccelli. Si drizzan sullo stelo
superbi i sonnecchianti ciclamini,
aspettando impazziti che nel cielo
turchino, luminoso l’astro d’oro
sorga a schiudere i loro corallini
petali. È la rosea aurora: al lavoro!


Salvatore Quasimodo – dt. von mir

Samstag, 5. März 2011

Salvatore Quasimodo: Negli alberi uccisi / in den totgeschlagenen bäumen

in den totgeschlagenen bäumen
heulen wind-ich die höllen.
der sommer schläft sich honig-keusch,
die eidechs’ noch als ungeheuerkind

daß ich nach mensch rieche
dafür im fruchtbaren zellendunkel
um vergebung die engelluft,
das wasser mein himmlisches herz

Negli alberi uccisi
ululano gli inferni.
Dorme l’estate nel vergine miele,
il ramarro nell’infanzia di mostro.

Del mio odore di uomo
grazia all’aria degli angeli,
all’acqua mio cuore celeste
nel fertile buio di cellula.

eingeladen hierzu von ANH.

Freitag, 28. Januar 2011

Alban Nikolai Herbst: La quarta elegia di Bamberga

Bamberger-Elegien
Alban Nikolai Herbst
La Bestia perenne
Elegie di Bamberga


Quarta elegia

Trovammo, ma senza tenerla. E fallimmo. Prese, baciandola, con mani la nostra testa. Vi rimase a lungo. Ma sempre svanisce quel ch’è nostro non appena è nostro. Sfugge per poi rimanere davvero: come qualcosa ch’è stato. Altrimenti, piegandosi, si perderebbe nel quotidiano. L’amore, amata mia, è troppo alto per le porte basse e, se spinto, si torce umiliato andando ginocchioni, e soffoca la sua superbia. E non lo sopporta.
Non ci accorgemmo di quel che facevamo? Quante volte, insieme, non ci siamo puliti i denti, le nostre mute cene, le attenzioni afflosciate come l’eco che risuona nella farina, quella nera per il pane che ci nutre, ma smussa: smussato il pane, smussato il cuore. Così mastichiamo. La bolletta della luce, l’affitto, il riguardo quotidiano, la spesa, scansati, come fossero profanazioni, i desideri. Le stanze troppo strette, avvertiamo la perdita, ma tacciamo la sventura. Perché dicendolo, tradimento sarebbe, uno pensa, l’attirerebbe evocandola. Poi, all’improvviso, ci troviamo di fronte estranei, ognuno verso di sé e verso l’altro. Allora te ne andasti.
Perdita, l’inizio del perenne. Ritrovati sesso e cuore quando eri andata via, e per questo tornasti. Addio e lacrime. Soffia e s’avvicina un vento che, uscito dalla Regnitz e estendendosi sopra il verde intenso del prato, sale il muro e, attraversando la ghiaia del terrazzo, arriva alla porta di vetro. Finché non ti respirano le finestre, la stanza, e non più niente che non pianga. Le sedie, la scrivania, gli scaffali. Un’acqua che, all’improvviso, si versa da sé in un pianto, perfino nell’angolo dove uno stava non facendo altro che cucinare. Da sé, e così scorre anche questo. Come se piangesse un altro. Non è possibile fermarlo, il dolore che nessuno, con tanto ritardo, comprende. Non eravamo staccati già da tempo? Lacrime senza singhiozzi che scorrono senza volontà. Come se, dietro le palpebre, qualcosa facesse acqua. Ma siamo n o i a piangere queste lacrime? E già smettiamo accorgendocene. Si screpolano le orme asciugandosi. Così presto ti fermi, tu, umiliata nella superbia che, p e r noi, hai versato lacrime d e n t r o di noi. Ahimè, che lei non afferri la lontananza!
Ascoltare inermi. Stiamo seduti. Ti ascoltiamo, noi smarriti in te, nascosti, nella gola irrigiditi. Vieni! Tu lo vuoi. E tu segui.
Aprendole poi, le palpebre già seccate, e lo sguardo evaporato. Come se si screpolasse la pelle al pari d’un ruscello asciutto. Nessuno più canta. Sulla ghiaia e sulle panche il sole che gioca. Per fare un po’ di fresco, uno scroscio lo abbandonò lì. Come se la Regnitz avesse inverso il suo corso e tu fosti stata gettata sulla riva, contro ogni corso del tempo.

Ci sono altri giorni, amata, che torni in immagini quasi improvvise, sconcertanti che, così impreparati come lo siamo anche noi, non si prestano a soddisfazioni. Così scuri i capelli, e come cascavano. Prendemmo per moglie la madre di cui, nell’infanzia, siamo stati privi. L’infanzia, sempre, vi si sovrappone. Andato! Le manca l’ascella, manca il tuo collo, il tuo orecchio e quella scia odor camelia, i profumi d’Arabia, i profumi di boschi tramontati. La berremmo se ci mangiassimo: entusiasti, dimentichi di ogni distanza. Ora soffia su dalla Regnitz, con insistenza contemplativa. Di nuovo inversa la corrente, uscita dalla diga, dallo sgorgare, dalla nebbia degli spruzzi d’acqua che, dispersa, libera il ricordo più doloroso: che la voce, la tua non taccia dolente come la passione adempiutasi. Non mi rassegno alla perdita. Use it or lose it. Il tuo corpo appesantito dal sonno, ancora sdraiato e in attesa. L’ha offeso il raffreddamento quando l’animale perenne, senza badarvi, lo scavalcò cercandosi la sua preda altrove, trovandola – perché il tuo odore era troppo familiare e un troppo essere a casa dove uno ama sì dormire, ma senza cacciare. Testosterone vagabondo! Che non ci l a s c i a né il nido, né l’ascella, né la casa nella quale, arrotolati, dormiamo.

La sedia viene spinta all’indietro. Abbiamo bisogno di riprenderci e ci alziamo, siamo nervosi. Nella porta schiocca il fiammifero. Così stiamo lì, fumando, la sciarpa tirata attorno al collo. La luce del sole ha finito di giocare. Una nuvolaglia a metà grigia si stende sopra il fiume, pende dai tetti come sacchi di iuta. Sotto, la frettolosa corrente, gli sporchi mulinelli nei quali, spinte verso l’autunno, ruotano le foglie. Due gradini, piccola rampa di legno resa viscida dalla pioggia. Ci mettiamo piede, raggiungiamo la ghiaia che cede scricchiolando. Non si sentono voci, non bambini, turisti neanche, appena qualche volta una macchina. In attesa perfino gli uccelli.

Cosa vuoi? Una pace protetta, buona per bambini perché sociale e perché si invecchia più facilmente? Protegge solo dalla paura della bestia perenne che vi irrompe che, inquieta, vaga a tradirci. Come stavi sdraiata sola! Ti venne il tuo dolore femminile sul labbro che, senza macula, era te e, sdoppiato, anche l’utero! Ma la bestia continuava ad aver fame. Ora sente la sindrome degli arti fantasma.

Ital. von Helmut Schulze

Das Buch erscheint im Elfenbein Verlag

Montag, 21. Juni 2010

SICH GLEICH / PARI A SÉ (Ungaretti)

SICH GLEICH
1925

Geht das Schiff, ganz allein
In der Ruhe, der Ruhe des Abends.

Da und dort erscheint ein Licht
In der Ferne, Haus und Häuser.

In der tief tiefen Nacht
Zerschellt’s unten am Grunde des Meeres.

Doch es bleibt und bleibet sich gleich
Ein Rauschen, das verliert und...

wie-, wieder wird...


PARI A SÉ
1925

Va la nave, sola
Nella quiete della sera.

Qualche luce appare
Di lontano, dalle case.

Nell’estrema notte
Va in fumo a fondo al mare.

Resta solo, pari a sé,
Uno scroscio che si perde…

Si rinnova…

(Giuseppe UNGARETTI)

[hab’ mich an die silben gehalten, darum zuweilen die wiederholungen, aus reinen klangerwägungen, und um nicht zu beschleunigen, wo im original nichts schnelles ist.]

Mittwoch, 28. April 2010

Vertäute Boote - Dino Campana

Vertäute Boote

…………….
Die Segel die Segel die Segel
Die im Winde schnalzenden, peitschenden
Eitel und auf sich blähenden
Die Segel die Segel die Segel!
Die weben und weben: die Klage
Ihren Wankelmut, von der Welle, die dämpft
In wankelmütiger Welle verschallt
Im letzten grausigen Knall
Die Segel die Segel die Segel


Barche amorrate
…………….
Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l’onda che ammorza
Ne l’onda volubile smorza
Ne l’ultimo schianto crudele
Le vele le vele le vele


Dino Campana, aus: Canti orfici

Donnerstag, 25. Februar 2010

Indische Serenade (Montale)

Indische Serenade

Unser doch das Sichauflösen der Abende.
Und für uns der Streifen Lichts, der vom Meer aufsteigt
zum Park und die Aloen, sie schneidend, verletzt.

Führ mich ruhig an der Hand, wenn du dir vorstellst
zu glauben, mit mir zu sein, wenn ich so toll bin,
dir weithin zu folgen, und das, was du da drückst,

das, was du sagst, in deiner Macht zu liegen scheint.

***

Und wäre es dein Leben, das mich zurückhält
auf den Schwellen – könnt’ ich dir geben ein Gesicht,
dich als Gestalt phantasieren. Aber es ist,

es ist nicht so. Der Krake, der seine Tinten-
arme in die Klippen vor- und dann hineinstreckt,
kann sich deiner bedienen. Und du gehörst ihm

und weißt es nicht. Du bist er, glaubst du zu sein.


SERENATA INDIANA

È pur nostro il disfarsi delle sere.
E per noi è la stria che dal mare
sale al parco e ferisce gli aloè.

Puoi condurmi per mano, se tu fingi
di crederti con me, se ho la follia
di seguirti lontano e ciò che stringi,

ciò che dici, m’appare in tuo potere.

***

Fosse tua vita quella che mi tiene
sulle soglie – e potrei prestarti un volto,
vaneggiarti figura. Ma non è,

non è così. Il polipo che insinua
tentacoli d’inchiostro tra gli scogli
può servirti di te. Tu gli appartieni

e non lo sai. Sei lui, ti credi te.


Eugenio Montale: Serenata indiana – dt. von mir.

Sonntag, 24. Januar 2010

PERSONAE SEPARATAE – Eugenio Montale

losgelöst wie goldene schuppe
vom dunklen grund, die geschmolzen
im gang der klapperdürren karuben
zerrinnt, so auch wir
getrennte personen im blick
eines anderen? gering ist das wort,
gering der raum in diesen rauhen
nebligen neumondnächten: was fehlt und
das herz uns wringt und mich hält
hier zwischen bäumen wartend deiner:
ein verlorener sinn oder das feuer,
wenn du willst, das dem boden aufprägt
parallele figuren, einträchtige schatten,
stäbe eines einzigen ziffernblattes
die neuen stämme der lichtungen
und voll auch die hohlen stümpfe,
nest für die ameisen. allzu
zerrissen der menschenwald, allzu taub
diese ewige stimme, allzu begierig
der ausblick auf die verschneiten
joche der lunigiana. deine gestalt
kam hier vorüber, ruhte am rinnsal
zwischen den gebreiteten netzen, löste auf
sich dann wie ein seufzer, um dich herum –
und da war kein flutender schrecken,
fand in dir das licht noch licht,
heute nicht mehr als am tage,
bevor es dann nacht wird, schon


Come la scaglia d’oro che si spicca
dal fondo oscuro e liquefatta cola
nel corridoio dei carrubi ormai
ischelettriti, così pure noi
persone separate per lo sguardo
d’un altro? È poca cosa la parola,
poca cosa lo spazio in questi crudi
noviluni annebbiati: ciò che manca,
e che ci torce il cuore e qui m’attarda
tra gli alberi, ad attenderti, è un perduto
senso, o il fuoco, se vuoi, che a terra stampi,
figure paralle, ombre concordi,
aste di un sol quadrante i nuovi tronchi
delle radure e colmi le cave
ceppaie, nido alle formiche. Troppo
straziato è il bosco umano, troppo sorda
quella voce perenne, troppo ansioso
lo squarcio che si sbiocca sui nevati
gioghi di Lunigiana. La tua forma
passò di qui, si riposò sul riano
tra le nasse atterrate, poi si sciolse
come un sospiro, intorno – e ivi non era
l’orror che fiotta, in te la luce ancora
trovava luce, oggi non più che al giorno
primo già annotta.


Eugenio MONTALE, dt. version von mir

Freitag, 9. Oktober 2009

der dschungel der seelen so dunkel ...

der dschungel der seelen so dunkel
wie die haut und die augen, die
das moderne leben aufpäppelt zu
harter notwendig- und niedrigkeit
rom nunmehr im klinsch unreiner
ordnungslosigkeiten, blinder stil-
verwirrungen, so wie eine flutwelle
über einstürzende dämme tritt: ohn-
mächtig spürt es das rom der macht,
pöbel noch, das nationale bangen.

Pier Paolo Pasolini

letzte strophe von teil I des gedichts „L’umile Italia“: La jungla delle anime scure / come la pelle e gli occhi, che / la moderna vita nutre a dure / necessità e bassezze, ormai è / su Roma, la stringe in impure / confusioni, in ciechi smarrimenti / di stile, come una piena sale / oltre i rotti argini: impotente / la Roma del potere ne sente, / ancora plebe, l’ansia nazionale. - wiedergefunden nach monaten „Le ceneri di Gramsci“ unter einem antiquariatskatalog im zeitungsformat, als ich dann doch mal wieder staub wischen muße.

Sonntag, 31. Mai 2009

Gerard Manley Hopkins: Strike, churl ...

Schlag, Rüpel, nur zu; remple, freudloser Wind; peitschender Hagel
Maienschönheitsgemetzel, wild wachsen & fetzen die Wolken
Aus dem Riesen-Geluft; sag dem Sommer Nein,
Bitt um Wiederfreude, bei der Ernte, blaß aber bleibe Hoffen.

im Reclam-bändchen blätternd der gedichte von Gerard Manley Hopkins (übersetzung Ursula Clemen und Friedhelm Kemp), mochte es dennoch versuchen, dieser letzte maitag ist danach; hier die Reclam-texte, engl. u. dt.:

Strike, churl; hurl, cheerless wind, then; heltering hail
May’s beauty massacre and wispèd wild clouds grow
Out on the giant air; tell Summer No,
Bid joy back, have at the harvest, keep Hope pale.

Schlag zu, Kerl; brich herein, trostloser Wind, denn; peitschender Hagel
Mag Maienschöne morden und bündelweis wildes Gewölk aufwachsen
In der ungeheuren Luft; sprich zum Sommer Nein,
Ruf Freude ab, habs auf die Lese abgesehn, halt Hoffnung fahl.


fand nirgends das „heltering“ ohne „skelter“, drum von Reclam als „peitschend“ übernommen (ich glaube, die beiden übersetzer haben das gedicht nicht verstanden, weil sie nichts wußten von solchen naturkatastrophen, allein schon für die blüten der pflanzen, die dann zu früchten hätten werden sollen).

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